Il fotografo Marco Slavazza ci racconta oggi della sua scelta di dedicarsi alla fotografia e di come la stessa sia un mezzo di comunicazione dal forte potere emotivo.
Ci racconti come nasce la tua passione per la fotografia e come è diventata la tua carriera?
La mia passione per la fotografia nasce fin da piccolo quando rubavo una Yashica ad ottica fissa a mio padre, anche se poi in realtà non l'ho mai davvero sviluppata fino ad una decina di anni fa quando, iniziando a studiare Lettere e in particolar modo Giornalismo, mi sono chiesto come potessi raccontare al meglio quello che vivevo oltre che con le parole: da lì è stato un susseguirsi di eventi iniziati dall'acquisto della prima Reflex digitale fino a finire come assistente di Sergio Caminata, uno dei fotografi più importanti del panorama Milanese. Successivamente, dopo aver appreso da lui alcuni segreti ed aver collaborato con lui per diverso tempo, nel 2011 ho deciso di fare il grande salto nel buio aprendo il mio Studio a Parabiago, cittadina dell'Hinterland Milanese dove abito.
La fotografia per lavoro e la fotografia per passione sono due cose diverse? In cosa si differenziano?
Nel mio caso specifico, la fotografia per lavoro e la fotografia per passione sono due cose ben distinte dove l'unica cosa in comune (a volte neppure quello perchè uso sistemi diversi molto spesso) è il mezzo. Quando lavoro infatti, cerco di essere il più 'scientifico' possibile, quindi cerco di avere il controllo assoluto delle luci, la gestione totale della scena, la ricerca della perfezione, etc. Quando fotografo per passione invece sono molto più 'libero', seguo molto meno gli schemi, anzi, seguo quasi unicamente il puro istinto: non mi preoccupo di essere nella condizione ideale, cerco di cogliere ogni più piccola sfumatura di qualsiasi cosa mi capiti. Infatti, lavoro prevalentemente in studio (pubblicità, ritratto) o in ambienti controllati (eventi, manifestazioni) mentre per passione fotografo la gente in strada, gli eventi che vivo, mi dedico al reportage e all'architettura 'non convenzionale'.Ovviamente però ci sono sempre punti in comune: ricerco sempre inquadrature il più possibili personali e non standardizzate, cerco di cogliere sempre l'essenza delle cose anche se sono semplici oggetti inanimati, domino sempre il mezzo attraverso cui fotografo e cerco di non lasciare quasi mai nulla al caso.
Di quali generi fotografici ti occupi per lavoro? E nel tempo libero invece cosa ti piace immortalare?
Come detto, per lavoro mi occupo prevalentemente di still-life, fotografia di studio (pubblicitaria, promozionale, ritrattistica) ma anche di reportage di eventi e reportage aziendali. Per passione invece mi occupo prevalentemente di reportage di città, con un occhio in particolare per i reportage architettonici.
Sei più tecnico o istintivo quando scatti?
Anche qui torniamo alla seconda domanda. In ambito lavorativo capita raramente - se non nei reportage aziendali - di essere istintivo tanto che voglio sempre che tutto sia il più possibile sotto controllo, sia per limitare al minimo la post produzione, sia per avere uno scatto il più vicino a quello che immagino. In ambito passionale invece l'istinto domina incontrastato: a volte fotografo puramente spinto da emozioni e mi ritrovo a scattare situazioni che mai avrei potuto immaginare, o a fotografare architetture con degli sguardi che mi permettono di avere viste che nella quotidianità non si percepiscono in alcun modo.
Cosa pensi delle immagini come mezzo di comunicazione?
La fotografia, ancor più del video, è insieme al testo scritto il modo in assoluto migliore per comunicare qualcosa.
è un'emozione, un'emozione che passa dalla vista e arriva fino al cuore. Penso a reportage di Korda, Capa, di Henry Cartier-Bresson o di Doisneau, ma anche fotografie in studio di Man Ray o Avedon. Hanno creato qualcosa di più di opere d'arte, qualcosa che emoziona gli spettatori quanto la Notte Stellata di Van Gogh o un qualsiasi capolavoro di Caravaggio; qualcosa che va oltre la semplice immagine che vediamo, qualcosa che ci prende nel profondo, ci scuote, ci tramortisce e ci restituisce alla quotidianità con un sentimento e una sensazione nuova, diversa.
Penso però anche a foto più 'recenti' come quelle delle morti dei migranti in mare o una qualsiasi foto finalista del World Press Photo: sono foto che ci colpiscono, che raccontano in un fotogramma una storia nella sua drammaticità, comicità o semplicemente nel suo senso più completo molto più di quanto possa fare un servizio di un telegiornale. Solo la scrittura è paragonabile alla fotografia, con la differenza che nella fotografia ti basta uno sguardo per esserne tramortito, la parola invece devi ascoltarla, capirla, rimuginarla, farla tua prima che susciti un'emozione.Ed è per questo che ho scelto di essere, prima ancora di farlo, un fotografo.
Ringraziamo Marco per aver condiviso con noi il suo pensiero. Per vedere i suoi scatti vi invitiamo a visitare il sito www.photoluxstudio.it.